Ero a Venezia per lavoro e, come spesso mi capita, mi fermai ad un ristorante per pranzare, da sola. Scelsi un ristorante in cui non ero mai stata e ricordo di essere rimasta piacevolmente colpita per l’ospitalità riservatami. Mi diedero un tavolo bellissimo, non il più appartato, non il più centrale, bensì il “tavolo con la vista migliore”.
Prendo sempre spunto da questa esperienza vissuta in prima persona tutte le volte in cui parlo di accoglienza con i miei studenti o costruisco un piano di formazione per il personale di sala dei miei clienti, perché è un episodio emblematico. È così, infatti, che si scardinano luoghi comuni e atteggiamenti sbagliati nei confronti della cena o del pranzo in solitaria.
Faccio notare quanto sia importante l’atteggiamento nei confronti del cliente singolo, il quale può trasformarsi nel principale testimonial di un ristorante.
C’è ancora una reticenza culturale, più spiccata in Italia che all’estero, nei confronti di chi mangia da solo/a: trova le sue radici nell’abitudine di considerare il “mangiare fuori” un’eccezione che merita sempre e soltanto momenti di convivialità.
Mangiare da soli al ristorante sta diventando invece sempre più frequente, sia per i ritmi frenetici della nostra quotidianità, sia per una scelta più consapevole di vivere un’esperienza intima e dedicata solo a se stessi.
Ecco perché mi soffermo con molta cura su questa specifica situazione che richiede la costruzione di equilibri di sala particolari.
Parlo di equilibrio perché è molto facile cadere in un’esasperata attenzione, da una parte, o in un atteggiamento indispettito (per aver occupato un tavolo per un solo coperto) dall’altra.
Mettere a proprio agio il cliente è compito del ristoratore. E se è vero che gli escamotage sono tanti e le chicche ancor di più, è anche vero che l’errore più grande, quello da evitare come la peste sarà sempre chiedere: “è solo/a?”.